Segni di schizofrenia che precedono i sintomi per una diagnosi precoce

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 14 febbraio 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Se si eccettua la poco praticata diagnosi di “stato mentale a rischio”[1], nella massima parte dei casi le psicosi sono diagnosticate quando le manifestazioni psicopatologiche assumono un rilievo tale da incidere marcatamente sulla vita affettiva e lavorativa della persona o da causare allarme sociale. Solo quando la storia clinica e l’attualità psicopatologica sono attentamente esaminate da psichiatri competenti ed esperti, si ricompone il senso che consentirà di interpretare una trama di fatti e di indizi come un prologo di anni o decenni ad uno stato presentato spesso come una “crisi”, alla stregua di un disturbo d’ansia reattivo, ma che in realtà coincide con l’emergere sociale della psicosi. L’evento, a volte clamoroso a volte preoccupante, che determina il ricovero in trattamento sanitario obbligatorio o una consultazione psichiatrica d’emergenza, è tradizionalmente definito “esordio psicotico” e, adoperando un criterio puramente clinico e per molti versi superato dalla psichiatria contemporanea, è considerato in pratica l’inizio della malattia mentale. Senza entrare nel ginepraio delle concezioni e delle controversie su cosa si intende per malattia mentale e se sia lecito o meno applicare il paradigma della patologia generale ai disturbi della mente, si deve rilevare il fatto che un numero notevole di prove ha dimostrato nel tempo che la presenza di stati morfo-funzionali diversi e processi molecolari, cellulari e sistemici alterati, precedono l’insorgenza delle manifestazioni cliniche e, in particolare, dei cosiddetti “sintomi positivi” che caratterizzano la semeiotica della schizofrenia.

Si ricorda, in breve, che le manifestazioni cliniche di schizofrenia si raggruppano in tre categorie: 1) sintomi positivi, costituiti da deliri, allucinazioni e disorganizzazione del pensiero, espressa in chiave cognitiva e nell’incoerenza fra stati affettivo-emotivi e contenuto ideativo; 2) sintomi negativi, quali perdita o deficit di reattività emozionale, di capacità di provare piacere, di motivazione, di lessico e concetti verbali; 3) deterioramento cognitivo, caratterizzato da disturbi dell’attenzione, riduzione di abilità logica nel problem-solving, deficit di memoria dichiarativa verbale e della fluenza dell’eloquio per allungamento dei tempi di richiamo di parole di uso comune e frequente.

Valutazioni retrospettive e studi prospettici di bambini considerati ad alto rischio genetico di psicosi schizofrenica, indicano che molti anni prima dell’insorgere dei sintomi positivi di psicosi (deliri, allucinazioni, pensiero disorganizzato) si possono manifestare lievi anomalie nella funzione cognitiva e nell’attenzione, goffaggine motoria e incongruità, bizzarie, incoerenze o eccentricità nei comportamenti sociali, non interpretabili come reazioni a particolari eventi o circostanze[2]. Tali osservazioni su aspetti dello sviluppo della schizofrenia, insieme con il rilievo della persistenza di sintomi negativi e deterioramento cognitivo, hanno portato a concettualizzare questo insieme di tratti come endofenotipo della schizofrenia, in gran parte corrispondente al nucleo di elementi sintomatici osservati nei parenti di primo grado delle persone affette[3].

Sulla base di queste conoscenze, Kahn e Sommer dell’Università di Utrecht, in una expert review sulla neurobiologia e il trattamento del primo episodio di schizofrenia, hanno proposto un aggiornamento su questioni, quali la valutazione di indici morfologici, come la stima del volume intracranico (ICV, da intracranial volume), ed indici molecolari, come l’eccesso di sintesi di dopamina, la ridotta funzione dei recettori NMDA del glutammato e lo stato infiammatorio del cervello.

La rassegna propone contenuti di interesse neurobiologico generale e materiale sufficiente per avviare un lavoro di aggiornamento della pratica psichiatrica, al fine di ottenere diagnosi che precedano l’esordio clinico con le classiche manifestazioni già ricordate (Kahn R. S. & Sommer I. E., The neurobiology and treatment of first-episode schizophrenia. Molecular Psychiatry 20, 84-97, 2015).

La provenienza degli autori dello studio è la seguente: Department of Psychiatry, Brain Center Rudolf Magnus, University Medical Centre Utrecht, Utrecht, (Paesi Bassi).

Le aspettative eccessive nutrite nel secolo scorso circa la possibilità di desumere la causa di malattie neurologiche e psichiatriche dalla morfologia macroscopica del cervello, portarono a cocenti delusioni, condizionando a lungo in maniera negativa i ricercatori. Per decenni, fino a tempi recenti, la riluttanza e lo scetticismo verso progetti di studio della neuroanatomia dell’encefalo nella schizofrenia e in altri disturbi psichiatrici sono stati la regola. Il rischio di essere sospettati di sottocultura frenologica od organologica ha tenuto lontani gli psichiatri dalle indagini basate sulla comparazione macroscopica cerebrale fra sani e ammalati, fino allo sviluppo delle tecniche di studio morfometrico quantitativo mediante risonanza magnetica nucleare. In realtà, la prima documentazione di una considerevole differenza anatomica fra schizofrenici e persone non affette da disturbi mentali, si deve agli studi di Alois Alzheimer, che rilevò un ridotto volume della corteccia cerebrale negli psicotici.

Quasi un secolo dopo, le sofisticate stime di volume basate sulla risonanza magnetica nucleare (MRI, da magnetic resonance imaging), hanno consentito di confermare l’osservazione istologica seguita ad esami necroscopici cerebrali realizzati da Alzheimer. Per la verità, già la tomografia computerizzata (TC)[4], la prima indagine radiologica che ha consentito la visualizzazione dell’encefalo, notoriamente trasparente ai raggi X, aveva documentato la riduzione del tessuto cerebrale circostante i ventricoli laterali, la cui cavità appariva conseguentemente ingrandita negli schizofrenici. Studi MRI, effettuati con l’impiego di procedure altamente specializzate di analisi statistica, hanno poi inequivocabilmente dimostrato un minor volume della corteccia cerebrale con una ipotrofia particolarmente accentuata nella struttura corticale del lobo frontale e di quello temporale[5]. Studi di segmentazione hanno definito il maggior interessamento della materia grigia, rispetto alla sostanza bianca, nella riduzione di volume. Studi delle connessioni condotti mediante la metodica MTI (magnetic tensor imaging) hanno rilevato la perdita di una percentuale considerevole di terminali assonici nella corteccia cerebrale di pazienti schizofrenici.

È perfino superfluo rammentare che tali riduzioni volumetriche non sono neanche lontanamente accostabili ai quadri di marcata atrofia cerebrale, che generano demenza, in patologie quali la malattia di Alzheimer e la malattia di Huntington.

Una questione, che stata a lungo dibattuta, riguarda la natura primaria o secondaria della riduzione di volume cerebrale nella psicosi schizofrenica. In altri termini: il minor volume corticale è dovuto ad una ipoplasia o è la conseguenza di una progressiva atrofia?

Sono stati condotti studi sulle fasi precoci della psicosi, per cercare di rispondere a questo quesito, talvolta riformulato in una semplificazione divulgativa del tipo “è il minor volume della corteccia responsabile della schizofrenia o è la schizofrenia che, con la sua fisiopatologia, negli anni porta alla riduzione della corteccia?”. Tali studi hanno riscontrato sia il minor volume corticale sia le principali anomalie funzionali rilevate in precedenza negli stadi avanzati della malattia. Studi prospettici hanno rilevato incremento del volume delle cavità ventricolari (riduzione della massa cerebrale) progressiva perdita del volume della corteccia cerebrale e progressivo deterioramento della neurofisiologia corticale, in un numero considerevole, ma non in tutti i pazienti schizofrenici esaminati[6]. Da notare che il grado di riduzione del volume corticale era strettamente correlato alla gravità del deterioramento cognitivo e dei sintomi negativi. Un accurato studio longitudinale ha fornito prove convincenti che il trattamento farmacologico antipsicotico contribuisce in maniera significativa alla riduzione di volume della corteccia cerebrale, rendendosi responsabile di un processo di atrofia corticale[7].

Ritornando agli aspetti trattati nella rassegna qui recensita, al momento in cui viene attualmente posta la diagnosi di schizofrenia, il volume intracranico medio (ICV), come osservato da Kahn e Sommer, è minore rispetto a quello delle persone non affette dal disturbo. Poiché questo valore volumetrico è strettamente dipendente dalla crescita del cervello, che raggiunge il suo massimo approssimativamente intorno all’età di 13 anni, il rilievo del difetto di ICV suggerisce che lo sviluppo del cervello in pazienti affetti da psicosi schizofrenica è ridotto prima di quella età. Il ridotto volume cerebrale è espresso come diminuzione quantitativa sia della materia grigia che della sostanza bianca. Dopo la diagnosi, è principalmente la perdita di materia grigia a progredire incrementandosi nel tempo, mentre i deficit rilevati di sostanza bianca appaiono stabili o, perfino, far registrare una lieve regressione, con un piccolo aumento percentuale nel corso della malattia e della vita del paziente.

Per comprendere le possibili cause dei mutamenti cerebrali nella prima fase della schizofrenia, sostengono Kahn e Sommer, è necessario integrare i dati provenienti da studi clinici del trattamento, indagini basate su neuroimaging morfologico e funzionale, studi post mortem sul cervello di persone affette e studi su animali. Operando una tale sintesi ragionata, il complesso di elementi emergenti suggerisce che la fisiopatologia della schizofrenia è multifattoriale.

L’eccesso di sintesi della dopamina da parte dei neuroni funzionalmente appartenenti allo striato è già evidente e rilevabile prima dell’epoca della diagnosi, in quanto è stato dimostrato che ha inizio durante la fase di stato mentale a rischio (ARMS) e progressivamente si accresce durante l’insorgenza clinica della psicosi, cioè nelle condizioni fisiopatologiche che producono deliri, allucinazioni e indebolimento cognitivo.

I sintomi negativi e la compromissione della cognizione sembra si possano ragionevolmente attribuire, oltre che allo stato infiammatorio di basso grado del cervello, ad anomalie quali l’ipofunzione dei recettori NMDA, che mediano funzioni di primaria importanza svolte nell’encefalo grazie alla segnalazione del principale neuromediatore eccitatorio del sistema nervoso centrale, ossia il glutammato.

A questo punto è importante soffermare brevemente l’attenzione su un aspetto importante. La visione “dopamino-centrica”, che ha dominato per oltre 40 anni la concezione della fisiopatologia della schizofrenia a causa dell’apparente efficacia dei farmaci anti-dopaminergici, può ancora oggi indurre in errore, inducendo la focalizzazione sull’accresciuta sintesi della catecolamina. È invece importante rilevare che è stata documentata la possibilità che, il difetto di funzione dei recettori NMDA e lo stato infiammatorio cerebrale, precedano di molti anni l’aumento di produzione di dopamina. Tale dato è concordante e coerente con l’osservazione di disfunzione cognitiva e sociale precedente di molti anni quel mutamento radicale che coincide con l’apparire dei sintomi. In proposito, è stato osservato che la correzione con farmaci antipsicotici dell’eccesso di dopamina è spesso efficace nei pazienti al primo episodio psicotico, mentre in questi casi gli effetti dei trattamenti volti a correggere l’ipofunzione NMDA e a dominare l’infiammazione, si sono rivelati veramente modesti. Si può però obiettare che questi due tipi di trattamento andrebbero istituiti all’apparire dei primi segni di indebolimento cognitivo e disfunzione sociale, in un procedimento diagnostico che valuti anche ICV ed altri indici rilevanti, e non all’esordio di deliri e allucinazioni.

In conclusione, si raccomanda la lettura di questa rassegna anche per numerosi altri spunti che possono essere colti nei dettagli e nei particolari dei dati riferiti, come nella loro discussione da parte degli autori.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la revisione del testo e invita alla lettura delle numerose recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito ( utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-14 febbraio 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Indicata con l’acronimo inglese ARMS, da at risk mental state, la condizione di “stato mentale a rischio” si ritiene corrisponda ad una fase prodromica delle psicosi e, in particolare, della schizofrenia. Caratterizzata da alterazioni dell’umore, lievi difetti cognitivi, ansia, sintomi psicotici attenuati e declino funzionale in ambito occupazionale e sociale. La sua reale esistenza come fase che precede la malattia è controversa, ed alcuni studi hanno rilevato che solo una piccola percentuale di persone che hanno ricevuto questa diagnosi sviluppano schizofrenia.

[2] Cornblatt B. A., et al., The schizophrenia prodrome revisited: A neurodevelopmental perspective. Schizophrenia Bullettin 29, 633-651, 2003.

[3] Cfr. Coyle J. T & Konopaske G. T., The Neurochemistry of Schizophrenia, in Basic Neurochemistry (Brady. Siegel, Albers, Price), p. 1001, Academic Press, 2012.

Per completezza, si ricorda che l’insieme dei dati emersi dagli studi più recenti suggerisce cause multiple all’origine del fenotipo.

[4] Inizialmente si parlava di TAC (tomografia assiale computerizzata) perché la prima metodica si basava sull’impiego di apparecchi che effettuavano scansioni assiali (EMI-scanner).

[5] Kuperberg G. R., et al., Regionally localized thinning of the cerebral cortex in schizophrenia. Archives of General Psychiatry 60, 878-888, 2003.

[6] Puri B. K., Progressive structural brain changes in schizophrenia. Expert Review of Neurotherapeutics 10, 33-42, 2010.

[7] Coyle J. T & Konopaske G. T., op. cit., 2012, p. 1003.